targa florio

TARGAMANIA!!!!!

VITA PALERMITANA 1

Bere con un Tocco di infamità

La notizia è della settimana scorsa e si è tirata dietro uno strascico di polemiche. La mafia diventa un videogame con tanto di picciotti, omicidi, cupole, riciclaggi. Vince chi è più boss e chi fa più rapida e brillante carriera nella sua cosca. Ma c'è un "gioco della mafia" ben più antico di quello figlio dell'Era Elettronica. Si gioca da decenni nelle taverne palermitane o nelle tavolate estive sotto le pergole del Centro Storico. Si gioca ma non si potrebbe: la legge infatti lo vieta. Così ci sono taverne a Palermo dove ancora potete leggere il seguente cartello: "Proibito il Tocco".
Ma sorprendere i giocatori è praticamente impossibile: niente carte, niente dadi, niente di niente. Solo un gruppo di persone sedute attorno ad un tavolo pieno di bottiglie e bicchieri. Eppure il Tocco è un gioco antichissimo, complesso, sofisticato. Attorno al quel tavolo si sviluppano strategie, alleanze, prepotenze, infamità. Si esercita il Potere, si forgia l'Individuo, si recita l'eterna dissimulazione dove "il fatto è uno, il discorso un altro". Vince chi è più figlio di b... (cioè abile) chi dimostra di essere capace di "tirare per il suo". Chi è generoso e leale giochi a "acchiana u patri cu tutti i so figghi" ma non al Tocco.
Il gioco inizia con un accordo: tutti stabiliscono la quantità di "bibita" da mettere in palio. Una volta si giocava col vino ma col tempo si è imposta la birra (rigorosamente nazionale: quasi sempre Forst, certe volte Moretti quasi mai Peroni. Ma un tempo imperava la Messina).
Le regole preliminari sono ferree: la quantità di birra disponibile per il gioco è assoluta. Nessuno si sogni di ordinare da bere singolarmente. Durante il Tocco non si mangia. Semmai prima. Si consigliano polpette fritte e uova "dure" (sode) ma senza pane. Così "assuppano" (ma non troppo) e fanno reggere meglio la bevuta. Ma quando la perfidia regna, l'unico cibo consentito prima del Tocco sono le olive e le sarde salate. Così non sarà la sete che mancherà.
Dicevamo: il fatto è uno, il discorso è un altro. All'apparenza il gioco consiste nel bere la "bibita" tutti insieme rendendo la bevuta un po' più complicata con una serie di impedimenti. In realtà chi ha una strategia sa già di mirare fortemente a due obiettivi: lasciare uno dei giocatori a bocca asciutta (lasciarlo, si dice, "accucchiato") e farne ubriacare un altro. Per realizzare tutto ciò è necessario che già prima di sedersi a giocare ci sia tra i giocatori una occulta alleanza che miri a creare le condizioni favorevoli.
Quando arriva la birra il gioco comincia davvero. Così «si tocca» cioè si fa la conta gettando le dita. I più bravi riescono a stabilire chi è uscito senza neanche fare la conta. Ma ci vuole arte per questo. Il prescelto dalla "toccata" è il "padrone d'uscita". Questi ha un diritto e un dovere. Ha il diritto di bere, cosa che può fare immediatamente oppure dichiarando una "bibita riservata" da incassare in qualunque momento del gioco (con la postilla: ce la levo a chiunque). Ma ha il dovere di nominare un Padrone e un Sotto. Ora la cosa davvero straordinaria è che il vero Padrone è il Sotto. Cioè il Padrone è un uomo di paglia, un Pupo, personaggio tutto sommato secondario. Il vero boss è il Sotto che, almeno dal nome, dovrebbe essere un gregario, un galoppino. Ricordate Michele Greco detto il Papa di Cosa Nostra? Ebbene Greco era il Padrone. Il Sotto si chiamava Totò Riina.
A questo punto comincia a svilupparsi la strategia del gioco. Se il Padrone d'uscita appartiene ad un gruppo, nominerà Padrone e Sotto in modo da cominciare a lavorare all'obiettivo di fare ubriacare uno del gruppo "nemico" e di lasciare "accucchiato" un altro. È il Sotto a parlare per primo e rivolgendosi al Padrone gli dica: "O bevi o inviti". A questo punto il Padrone può bere oppure invita uno o più degli astanti. L'invito può essere complesso, quasi barocco: bevono Pino, Vicio e Iachino ma Iachino si deve bere una bottiglia senza "stagghiare" (cioè tutta d'un fiato). Già si comincia a capire chi è destinato a sbronzarsi. L'invito del Padrone può avere buon fine o può essere impugnato, del tutto o in parte, dal Sotto. Il quale, per esempio dice: a Pino buona salute, quella di Vicio me la bevo io e lui si beve quella che lascia Iachino. Quest'ultimo, che deve bere una bottiglia d'un fiato, riempie il bicchiere e comincia a bere continuando a versare fin quando gli reggono ventre e polmoni. Se non ce la fa Vicio è pronto a bere. A meno che.... A meno che il padrone di uscita non intenda far valere la propria "bibita riservata": si è capito chi doveva restare "accucchiato"?
E si va avanti così tra proposte promettenti del Padrone e spietati divieti del Sotto. O costringendo qualcuna a bere, se vuole, ma mettendo la birra dentro la scarpa o in un "rinale" Fin quando non finisce la "bibita" messa in palio. A questo punto si ricomincia, cambiano i Padroni d'uscita, i Padroni e i Sotto e così cambia tutto: alleanze, strategie, i gruppi si mescolano, ci sono tradimenti e infamità. Come nella mafia: con la differenza che nel Tocco non ci sono i Pentiti. Almeno non ancora.

Che lavoro fa? Sono Sofferente...

"Chiunque lascia i sacchetti dell’immondizia qui, ci deve venire una malattia senza rimedio”. Questo terribile annuncio appariva fino a qualche mese fa su un muro bianco in una stradina di Partanna Mondello prima che un pietoso pennello la cancellasse. L’espressione comunque la dice lunga non solo sulla capacità offensiva dell’invettiva palermitana ma anche, a ben guardare, sul rapporto tra i palermitani e la salute (specie quando è scarsa).La malattia è un problema sociale e su questo non ci piove. Ma che questo aspetto della società sia molto malato è altrettanto vero. E’ sufficiente passare da un ospedale o entrare nei gironi infernali delle Asl per rendersene conto. Sarà per questo che i palermitani, noti scettici di qualsiasi sistema sociale organizzato (tranne la propria famiglia anche se “allargata), hanno sviluppato con la malattia un rapporto che è una fotografia della propria essenza. Un mix straordinario di paura e di strafottenza, di ignoranza e di fiducia, di cinismo e di solidarietà.L’invettiva dell’immondizia traccia, intanto, una chiara linea di confine. Ci sono una serie di malattie su cui non si discute. Appunto, “senza rimedio”: su quelle non si scherza troppo. Al di quà, invece, beh, se ne può parlare.
Il palermitano ipocondriaco, quello che corre dal medico per il primo colpo di tosse, è una rarità. Ce ne vuole di tempo prima che si decida a bussare alla porta di un ambulatorio. Passeranno mesi durante i quali egli semplicemente aspetterà che il malessere finisca da solo: trascurerà i sintomi sino a negare l’evidenza, tirerà avanti sino a quando la malattia non diventerà un vero impedimento che non gli consentirà, per esempio, di svolgere la sua attività, qualunque sia. Un bruciore alla bocca dello stomaco? Acidità. Il cuore batte troppo velocemente? I pensieri. Tosse secca? Raffreddore. I rimedi sino a quel punto sono tradizionali (ma spesso, ovviamente, inutili). Convinto com’è che l’uomo è quello che mangia, il palermitano punta a individuare nella digestione la possibile origine di qualsiasi tipo di patologia. Il “decarbonato” (volgarmente detto bicarbonato di sodio) diventa una medicina di impiego generale che non serve solo a combattere l’acidità ma anche il mal di testa, una lunga serie di “dolori”, perfino qualche stato di “siddiamento”. Ma quando tutto ciò non basta e si finisce nella tenaglia sanitaria, ecco che il palermitano cambia condizione e assume uno “status” dolente ma non privo di risvolti da orientare a proprio vantaggio: quello di “sofferente”. 
Di fronte alla prospettiva di dovere convivere a lungo (o addirittura per sempre) con una malattia, tutti i sistemi di riferimento vengono armonizzati in virtù della “sofferenza”. Il Sofferente verrà assolto dall’obbligo di numerose “prestazioni” sociali e la sua condizione verrà subito burocraticamente formalizzata cercando di trarne il maggiore vantaggio possibile a prescindere dalla reale entità della Sofferenza. L’obiettivo, quand’è minimale, è l’esenzione dai ticket sanitari, la destinazione ad un lavoro più leggero o a orari ridotti (ma questo solo nella pubblica amministrazione). Ma si può puntare anche a una pensione di invalidità. Sul piano sociale e dei rapporti interpersonali, il Sofferente gode generalmente di grande considerazione sia in famiglia che sul posto di lavoro. Naturalmente c’è sofferenza e sofferenza. Ci sono per esempio, patologie croniche che vengono sopportate per molti anni ma che non impediscono di essere comunque abili.
Esistono intere categorie di malanni che i palermitani mettono sotto un unico denominatore. “Aiu i rulura” fa riferimento a: artriti, artrosi, atrite reumatoide, osteoporosi, reumatismi, sciatica, cervicale. “U zuccaru” è il diabete in tutte le sue forme. “Reni lenti” fa riferimento a tutte le malattie la cui conseguenza è comunque che si fa spesso la pipì. Se poi “A testa un ci camina” oppure “Chiddu strammia”, ecco aprirsi il vasto settore psichiatrico. I disturbi della sfera sessuale (maschile) vengono riassunti nella drastica espressione “avi pobblemi di attisamento” oppure, più semplicemente “nun ci funziona”. Un paraplegico ‘ è “assittatu”, è una grave menomazione fisica assicura lo status di “meomato”.
Individuato il male, si cerca la cura e ci si affida al medico. L’intepretazione della ricetta è sempre un calvario e la sintesi è sempre generica: “U dutturi m’insignò una partita di gnizioni”, oppure “tri pinnuli” al giorno. Ma ogni tanto vengono prescritte capsule che per il palermitano sono invariabilmente “cabs”. Le marche delle medicine? Non se ne parla tranne per le più famose: “a ‘nsulina”.”la sprinina”, “u bibitas” (Bivitasi).Alla salute, come detto all’inizio, è legato un vasto repertorio di invettive. Citiamo qui il peggiore:“Colpo di sangue”. Dal chiaro significato, ha tuttavia alcune specificazioni particolarmente malevole. Quello “definitivo” è “colpo di sangue nel cuore”. Ma c’è anche la versione “negli occhi” e la più “andante” “’nte cannarozza” (cioé nella gola). E se al vostro odio tutto questo non basta, aggiungete: senza rimedio.

Come prepararsi all'anno che verrà

Stanotte si sogna ad occhi aperti e, soprattutto, si spera. Nei cinque minuti che precedono la mezzanotte anche il palermitano compilerà la sua personale lista di «desiderata» e di buoni propositi quando, già satollo dalle abbondanti libagioni, con lo stomaco in subbuglio per via delle letali lenticchie coll’ingranciato, mangiate dopo la cassata, si appresterà a sollevare il calice contenente lo spumante che, con ogni probabilità, gli darà il colpo di grazia.

Bisogna dire subito che per il palermitano il futuro è argomento da trattare sempre con grande delicatezza perché, in generale, anche i più ottimisti non lo considerano quasi mai come portatore di eventi esaltanti. Il massimo è sperare che non vada peggio: meglio il tinto conosciuto che il buono da conoscere, cioè meglio il presente dove i problemi hanno un volto conosciuto, che il futuro dove possono annidarsi altri pericoli, altri dispiaceri, altre avversità. La lista di fine d’anno, dunque, attesta, al massimo, la fortuna del presente della quale si chiede conferma all’anno nuovo.

Naturalmente ci sono situazioni e situazioni. Chi festeggia appartiene già alla metà del cielo che, per sua fortuna, non è angosciata da tragedie recenti: un lutto, una grave malattia, un rinvio a giudizio, un tracollo economico improvviso. E, come si vede da tale casistica, chi non si trova in queste ambasce, fa voti, soprattutto, perché ne rimanga fuori anche per tutto l’anno successivo.
Ma a chi vengono rivolte queste richieste di un Fato Benevolo? I credenti, naturalmente, pregano il Signore e umilmente vi si affidano. I non credenti eleggono il Futuro a divinità provvisoria e sperano di finire nelle pieghe buone di quell’imperscrutabile tessuto che è il Caso. Gli uni e gli altri, però, rispettano, diciamo così, una scala di priorità.
La salute è in cima ai pensieri dei palermitani anche quando non vogliono ammetterlo. Non se ne curano molto e ce ne vuole prima che un palermitano si «costituisca» a un medico (tranne gli ipocondriaci che sono dappertutto). Tuttavia il palermitano teme la disabilità più di qualsiasi altra cosa anche se, magari, non fa nulla per prevenirla, sempre al centro di ogni genere di «stravizio»: cibi, fumo, «bibita». La salute che viene invocata «in primisi» è quella per i propri cari, figli in testa. Che si tratti del Padreterno o del Caso, essi assumono per noi forma umana di interlocutore quasi fisico di fronte al quale non si può fare «mala figura». Di conseguenza c’è un modo «politicamente corretto», si direbbe oggi, di porgere le proprie «richieste». Dunque i figli: che stiano sempre bene, che non abbiano problemi. Segue la moglie (ma con un certo distacco) e, se li si ha ancora, i genitori. Poi fratelli e sorelle, zii, nipoti, compari. I suoceri? Ah sì, vero: anche loro. E il «richiedente»? Sempre per ultimo ma immancabile. Nessuno dice: Signore fa che io stia sempre bene ma, alla fine della lista, nessuno manca di concludere: Signore dammi la forza di potere provvedere per tutti. Come si vede, seppur in chiusura, la cosa assume il valore di una clausola preliminare e conferma il biblico «gli ultimi saranno i primi».
Assicuratasi la salute, bisogna pur campare. Allora ecco il «capitolo» dei soldi. Per i disoccupati la scelta è obbligata. All’anno nuovo chiedono un lavoro perché solo un lavoro vero ti dà la dignità (e il diritto alle assenze per malattia, alle ferie, all’orario di lavoro, al sindacato). Chi «stimpunia», cioè ce la fa con difficoltà e non ha imminenti prospettive di normale sistemazione attraverso i meccanismi classici del mercato del lavoro (assunzione), invoca il colpo di fortuna, la «sisal», il «superenalotto». Ma il desiderio non deve essere «smodato» se no l’Interlocutore (Dio o il Caso) potrebbe punire la vostra avidità. Allora bisogna chiedere un «sei» collettivo perché «a mia mi abbastassi un miliardo» (il palermitano pensa ancora pervicacemente in lire). E perché la richiesta sia più convincente, viene allegata una lista contabile precisa al centesimo che in genere comincia dalla eliminazione dei debiti, prosegue con la casa che comprende anche il nuovo «mobilio» e la cucina americana «che mia moglie se la sogna la notte». Poi l’immancabile auto (con tanto di marca e modello), lo scuterone per il figlio grande e il «cinquantino» per la ragazza che ha fatto 14 anni proprio l’altro ieri. Il resto (ma quale resto dopo questa lista?) alla banca. Tutto in «botti» e «ciccitti». E la beneficenza? Vuoi la Grazia da un miliardo e non metti in lista la beneficenza? Giusto: un «camio» di pasta a Biagio Conte va bene?
Risolti i problemi di salute e di economia, il resto appartiene alle statistiche ad una cifra. Ci sarà chi chiederà di potersi «mangiare una fetta di carne» assistendo alla caduta in disgrazia del proprio capoufficio, chi ha appena intrapreso un’attività e spera ardentemente che non si presentino presto nè gli esattori del fisco nè quelli del «pizzo», chi ha scritto un libro e spera di venderne assai, chi fuma e spera di smettere e così via. Laggiù in fondo c’è perfino chi spera che la guerra non si farà e che un bambino palestinese e uno ebreo possano giocare a «acchiana u patri cu tutti i so figghi» nella Spianata delle Moschee senza che qualcuno gli spari addosso. Buon anno.

Cornuto e sbirro: una teoria dell’offesa

Il palermitano è una lingua ambigua per antica tradizione. Se è vero che le parole sono pietre, chi le lancia cerca di farlo sempre in modo da evitare, se possibile, gli effetti pericolosi del loro rimbalzare. Accade così che molto spesso una stessa parola abbia più di un significato. Le differenze derivano, ovviamente, dal contesto. Ma anche da come la parola viene pronunciata, e perfino da quanto fiato l’accompagna. Per non parlare dei ”segni” che la condiscono: espressione del volto, ammiccamenti e così via.
Ciò premesso, per esempio, la parola ”sbirro” è offensiva oppure no? La questione, qualche tempo fa, è stata al centro di una serissima disquisizione semantica nell’ambito di una vicenda giudiziaria che ruotava attorno ad una intercettazione telefonica. Certo, il suo uso comune è prevalentemente dispregiativo. All’origine ”sbirro” o ”birro” era un modo sprezzante per definire un poliziotto (o un carabiniere o, perfino, un giudice inquirente). Esteso al resto del mondo è diventato presto sinonimo di spia, di delatore, di ”indagatore” senza titolo nè motivo se non la propria connaturata ”infamità”.
Sotto questo profilo l’accezione negativa del termine è senza appello. Tranne... Tranne che non si definisca sbirro... uno sbirro. Allora la faccenda cambia. In questo caso la parola può avere addirittura un contenuto ammirato perché racchiude un vasto ventaglio di qualità che possono essere riconosciute ad un professionista dell’indagine: astuzia, spregiudicatezza, capacità di costruire tranelli, di inventare trappole, istinto e inesorabilità della caccia. Qualità riconosciute, bisogna dire, soprattutto dalle prede naturali del cacciatore. In questo caso, insomma, lo ”sbirro” non è solo un poliziotto. È molto di più visto che ci sono tanti poliziotti ma solo qualche ”sbirro”. Nella stagione della Grande Nera palermitana ”sbirri” venivano considerati grandi investigatori che ancora i malavitosi ricordano con timore reverenziale. I colonnelli Russo e Subranni il capitano Basile e il maresciallo Ievolella, per i carabinieri. Boris Giuliano, Vittorio Vasquez, Vincenzo Speranza, Bruno Contrada, Ninni Cassarà e almeno una decina tra brigadieri e marescialli della ”mobile” tra i poliziotti. Per citare solo alcuni (le mie scuse agli altri) dei tanti che potrebbero far parte di questa singolare lista.
In questi casi, dunque, ”sbirro” non definisce solo un mestiere ma anche e soprattutto il modo di farlo. Ma vale solo al singolare. Infatti per ”sbirri” al plurale, si intende, in questo caso spregiativamente, l’intero complesso delle forze di polizia. Questo, ovviamente, sempre dal punto di vista del malavitoso.La questione in realtà riguarda tante altre parole. C’è forse modo peggiore per offendere qualcuno che definirlo ”cornuto”? Eppure anche in questo caso, l’espressione ”quello è un cornuto che non ce n’è”, rappresenta spesso un complimento. E ”diventare un cornuto” fa spesso riferimento all’atto (quasi sempre giustificato) dell’infuriarsi, dell’imbufalirsi, appunto.
E il ”cagnolo”? Si può dire a qualcuno che è un cane e lo si offende certamente. Ma se gli diciamo ”cagnolo” intendiamo un’altra cosa. Di solito dicesi di cane giovane, esuberante e guascone, cane di branco maschile al seguito di cagna in calore. Trasferito all’uomo, il termine descrive la stessa cosa: un giovanotto ”di compagnia”, spiritoso, goliarda, magari un po’ invadente. E soprattutto con ”la testa sempre là” dove ”là” definisce chiaramente, chiamiamola così, la sfera sessuale.
La parola "amico". Cosa c'è di più inequivocabile, chiaro, semplice ed immediato? Eppure…. L'espressione "un amico mio" è la più "minimale": trattasi dell'amico che, più che altro, è un conoscente, un vecchio compagno di scuola. "Un amico", senza il possessivo, è già diverso. Si dice di uno che pratica "l'amicizia" quasi come un mestiere, uno che "si mette a disposizione". Tipico personaggio dell'universo clientelare. "Ho un amico all'anagrafe". In Sicilia chi trova un "amico" così, trova davvero un piccolo tesoro. "Un caro amico" è qualcosa di più riassumendo le qualità dell'"amico" generico di cui si diceva ma con l'aggiunta di una "personalizzazione. In questo caso si intende far sapere che con quell'"amico" si ha un rapporto esclusivo capace di diventare "merce" preziosa nel mercato della piccola clientela da sopravvivenza. "Carissimo amico" ha invece due significati opposti in relazione alla sua collocazione nella frase. L'espressione "Vede, carissimo amico" segna il passaggio della discussione ad una fase più confidenziale, ben disposta nei confronti dell'interlocutore. Oppure segna l'inizio dell'esposizione del proprio punto di vista porto in modo soft nell'ambito di una strategia "penetrante". Ma attenzione: se "carissimo amico" viene posto all'inizio del discorso, le cose cambiano: "Carissimo amico, lei sta sbagliando a parlare". In questo caso è bene stare in guardia

Cosa bolle in pentola? La quarume
Cosa bolle in pentola? Mai chiedere prima di assaggiare. La stigghiola, infatti, non finisce solo arrosto. Può finire anche bollita. In questo caso si chiama ziniere o zinienu e appartiene al pianeta quarume, quello che l’italiano traduce con un pudico «caldume». Un pianeta sterminato, uno dei più antichi della gastronomia da marciapiede.
«Brodo e pietanza», si chiamava, dove quest’ultima non allude all’incremento improvviso della flatulenza che può derivare dal suo consumo ma al fatto che la quarume costituisce la pietanza da consumarsi insieme con il brodo. Dà un’idea di conforto, di inverni umidi e freddi, di viandanti che mitigano il disagio del clima con una sosta davvero ristoratrice: energetica e tonificante. Insomma, grazia di Dio.
La quarume è un piccolo Parlamento dove sono rappresentati tutti i partiti che lo formano. Ci sono i sostenitori dello ziniere o zinienu, quelli della ventra, quelli del centopelle, quelli della matruzza. Tutte parti diverse dei visceri del vitello che il quarumaro conquista non senza fatica né discordie, al Macello di Palermo o in quelli dell’immediata provincia, se si vuole cucinarla in casa bisogna ordinarla dal macellaio. Le frattaglie vengono (si deve legittimamente ritenere) pulite con acqua e sale poi si mettono a bollire nell’acqua. Anche in questo caso si procede a una prebollitura che poi continua sul posto di lavoro del quarumaro ma questa volta in una pentola piena di acqua con carote, sedani, cipolle, pomodori, sale e spezie, il corredo tradizionale del bollito, insomma.
A Palermo ci sono quarumari famosi. A Porta di Termini c’era Franco, figlio d’arte del mitico ’Gnazziddu che una sfortunata lite con un fornitore costringe attualmente ad una lunga vacanza a Barcellona Pozzo di Gotto. Il giovane Franco aveva la velocità del taglio, la capacità dell’intrattenimento del cliente in attesa del suo turno. Lo teneva impegnato con saltuari assaggini che gli impedivano di fatto di andarsene, scoraggiato dalla fila: tutto suo padre. Un altro quarumaro famoso era al Ponte Ammiraglio. È l’unico caso di «holding» visto che sul lungo bancone non si serviva solo quarume e musso ma anche le stigghiole, c’è da credere che presto vi troveranno posto pure pane e panelle e pane con la milza. Le leggi conseguenza della Mucca Pazza hanno di fatto provocato l’estinzione dei quarumari. Non tanto e non solo perché la vendita di alcune parti delle frattaglie è proibita ma per il fatto che la paura del consumatore ha provocato più danni della legge stessa. Ma quanto durerà? Io sono ottimista.
Naturalmente chi vende quarume, quasi sempre vende anche il musso, cioè quella parte del vitello che comprende la testa, i piedi, le mammelle e... quello. Sì, esatto, proprio quello, il simbolo dei simboli che, senza tanti preamboli né tepidezze, si definisce sic et simpliciter nerbo. Anche qui c’è un piano inclinato in genere ricoperto di larghe foglie di broccolo sulle quali vengono posati i pezzi già bolliti e serviti freddi tagliati a pezzetti e cosparsi di limone. C’è il masciddaro, cioè la mascella, la lingua, gli occhi, le orecchie. Poi ci sono i piedi che si dividono in frontali e carcagnuoli. I primi si tagliano a pezzi, i secondi si arrosicano a stricasale secondo un rituale ormai codificato. Nerbo, frontali e masciddaru si possono usare per fare un’insalata con l’aggiunta di cipolla rossa calabrese, olive bianche salate, sedano, carote, olio e aceto. Con le sole parti bianche (nerbo e frontali) si fa invece l’insalata che i nobili chiamano «di nervetti». Se sapessero da che «nervetto» provengono...
Luoghi deputati del musso sono a Porta Carini, in via Montalbo e a Porta di Terimi (Corso dei Mille) dove c’è Cosimino che ogni tanto ha pure le testine di capretto bollite, condite con l’olio, l’aglio e il prezzemolo. Roba da veri intenditori della frattaglia.
Appartengono alla tradizione della gastronomia da marciapiede anche sfincionelli e arancine.
Lo sfincione occupa un posto speciale nel cuore dei palermitani. Ci sono panifici rinomati per la qualità e, nelle occasioni comandate (la festa della Madonna, per esempio) se ne consumano tonnellate.
Lo sfincione però viene ancora venduto per la strada dagli ambulanti che lo tengono capovolto su una piastra sotto la quale c’è una fonte di calore «dolce» cioè non tale fa fare «friggere» il condimento. Lo sfincione «ambulante» è molto spartano: salsa di pomodoro, acciuga, cipolla e mollica. Alcuni guarniscono anche con fettine di carciofini bolliti ma non è la regola. Lo sfincione viene decantato: «Su ra bella vieru» è l’inno. Un buontempone ha messo su internet una versione «rap» dell’abbannio con le grida autentiche mixate con una base ritmata. Un vero sucesso, paragonabile a quello di «Tu vo fare u talebano». Ma anche un contrasto con il «contro-abbannio» irridente: «Scarsi r’ogghiu e chini i privulazzu» (poveri d’olio e pieni di polvere).
Le arancine, come lo sfincione, «partono» da luoghi chiusi. Leccornia tipicamente palermitana, sono famose quelle del Bar Alba o le «arancine-bomba» del bar Touring di via Lincoln. Per Santa Lucia, il 13 dicembre se ne consumano centinaia di migliaia. Ma anche le arancine hanno avuto un risvolto ambulante ormai, però, sccomparso. Le vendevano spingendo un banco secco e lungo a tre ruote gridando «E su ca carni», che detto tutto d’un fiato sembra un’altra cosa. Ma non erano solo con la carne. C’erano quelle al burro (si fa per dire) e perfino quelle ripiene di cioccolata e intinte, dopo la frittura, in una grande teglia piena di zucchero. Anche qui, mai farsi troppe domande: mangiare e godere.
Cronache dal “billino”
Una volta la villeggiatura era roba da ricchi. La seconda casa, poi, era roba da straricchi. Ai palermitani privi di tutto, ammassati nei catoi o, per loro fortuna, disseminati nell'amenità delle borgate, non restava che la gita al mare. Ancora alla fine degli anni Sessanta, per esempio, c'era un treno che oggi definiremmo "stagionale" ma che era affascinante come pochi. Intanto perché i vagoni, i più vecchi e "spardati" delle ferrovie, erano trainati dall'ultima locomotiva a vapore del compartimento di Palermo. Un mostro sbuffante che non ti potevi affacciare al finestrino perché ti abbronzava prima la fuliggine del sole. Il piccolo convoglio (massimo quattro vagoni) partiva la domenica mattina presto dalla Stazione Centrale con destinazione Isola delle Femmine. Anzi, poco dopo. La particolarità era infatti che locomotiva e vagoni si fermavano non in una stazione ma in aperta campagna. Un fischio avvertiva che si poteva scendere e raggiungere la spiaggia distante poche centinaia di metri. Il treno tornava a marcia indietro poi, verso le sette di sera, eccolo di nuovo ad aspettarci sui binari per rientrare a Palermo.
La mattina alla Stazione si radunava un pubblico variopinto e vociante: famiglie intere, sciami di bambini che stringevano al petto enormi camere d'aria nere da "Leoncino", un camioncino che allora andava per la maggiore (era un po' più grande di un altro che si chiamava Lupetto). Agli adulti spettava il trasporto dell'ombrellone con la tendina, delle prime sedie pieghevoli, delle, come al solito abbondanti, vettovaglie.
Quel treno andò in rimessa ai primi anni Settanta, sostituito dalle utilitarie e dai "lapini" in grado di trasportare miracolosamente interi nuclei familiari, attrezzi e salmerie. Così la Stazione si svuotò ma si intasarono le strade a cominciare dall'appena inaugurata autostrada Palermo Punta Raisi che consentiva di raggiungere località poi tipiche dell'estate palermitana: Carini, Villagrazia di Carini, Capaci, Isola delle Femmine. Per Sferracavallo si andava ancora in autobus, affollando la linea "28".
Ma sempre gita era. La villeggiatura vera e propria restava un sogno da tredici al totocalcio. La piccola borghesia che la seconda casa di proprietà non poteva certo permettersela, priva com'era anche della prima, ricorreva all'affitto. Da Cefalù a Terrasini nacque così il mercato delle case affittate solo per il periodo estivo, dal 15 giugno al 15 settembre. Ma nei sogni di tutti c'era sempre la Meta, cioè il "villino", altrimenti detto, chissà perché, "billino".
Due le grandi «famiglie»: il villino in campagna e quello al mare. Il primo denuncia di solito l’origine «viddana» del proprietario ancorchè inurbatosi a Palermo. Sorge su terreni aviti, ed è un modo per non perdere le radici.
Ma è nel villino a mare che si manifesta tutta la potenza immaginifica dei palermitani, soprattutto quelli che all’immaginazione devono ricorrere di fronte alla scarsezza dei mezzi. 
Il primo passo è il terreno ma è il più facile visto che, solitamente si tratta di Demanio. Il villino,cioé, nasce sostanzialmente abusivo e a pochi metri dal mare. Quando non è Demanio sorge comunque in luoghi la cui lottizzazione appare più che dubbia e sepolta sotto tonnellate di carte giudiziarie. Francobolli di spiaggia o di terreno sui quali cominciano i lavori. Fondazioni? Pilastri? Macché: all’inizio fu il braciere, vero altare attorno al quale ruota tutta la «logica» della casa. Collocato solitamente sottovento rispetto al luogo in cui si mangia, il braciere del villino è sempre esageratamente grande, tecnicamente perfetto, in alcuni casi dotato pure di ventola per favorire la veloce formazione del tappeto ardente della carbonella. Il resto della casa consiste in una camera da soggiorno e in un’altra (o, nei casi più «opulenti, in altre due) per dormire. Poi gli spazi esterni che sfruttano verande e tettoie.
Basta percorrere il tratto di spiaggia da Capaci a Carini lungo l’autostrada per Punta Raisi per rendersi conto della densità delle costruzioni: da quelle in muratura a quelle di legno. Ci sono poi quelli che sulla fettina di terreno collocano una roulotte. Unica opera fissa il braciere. Naturalmente.
Tutto questo crea un indotto: supermercati estivi affollatissimi, gelaterie, bar. Come si vede tutto legato al cibo. Per i più giovani discoteche improvvisate o più modeste balere.
Fatto il “billino” bisogna fare le vacanze. Che la festa cominci! La vita del villeggiante è punteggiata da riti quotidiani sempre uguali. Al mattino i ragazzi vanno a mare, la mamma dà una sistemata, il padre va a fare la spesa. Va al supermercato o, se può, direttamente all’orto perché non si può rinunciare ai tenerumi raccolti personalmente, alle relative «cucuzze», alle melenzanine piccole da fare «ammuttunate» con la salsa, al pomodoro per insalata e alle cipolle calabresi. Gli aromi sono a casa ognuno nella sua «grasta»: basilico, peperoncino, rosmarino. Sugli aromi è sempre guerra «agricola». La moglie è per il cespuglio di margherite e per la buganvill mentre il marito, nottetempo, sdradica gelsomino e pianta basilico «lattuga» e menta piperita.
Quando i ragazzi tornano dal pranzo, tutti a tavola: pasta con la salsa e le melenzane fritte o minestra di tenerumi e cuccuzza. Alle due è coprifuoco. Il pater familia si colloca nella sdraio appena comprata in piazza Generale Cascino per un prezzo impossibile, pronuncia la formula di rito («Ahhh, che bellu u friscu») e, malgrado un casino della malora, in sette secondi netti comincia a russare che lo sentono fino a Torretta.
Intanto la squadriglia acrobatica delle mosche scende in picchiata per le operazioni diurne. Obiettivo la bocca semiaperta del dormiente e i resti di parmigiano sulla tovaglia del tavolo da pranzo. Comincia un gioco di mani che si conclude verso le quattro con vere timpulate sulla faccia. Le mosche sopravvivono ma la pennica soccombe. 
I ragazzi sono tornati a mare e gli adulti, dopo il caffè discutono su cosa bisogna fare per cena. Verso le sei missione gelato o visite nel quinto «canile» girando a sinistra.
Alle otto si cena: è l’ora del pesce. I più ardimentosi hanno trascorso l’alba nel tentativo di pescare e c’è addirittura chi si dota di lancia e tre o quattro «passi» di «tre maglie», la rete «general purpose», quella che serve a prendere di tutto ma generalmente si tratta dell’accoppiata vincente di «Serrane&Viole», pesce di frittura. 
Dalla riva si tenta di prendere qualche muletto oppure, alla fine dell’estate si esce per pescare a traino tonnetti e ricciole. E nelle notti di luna nuova si va a totani oppure ad aguglie con la lampada ad acetilene. I mistici si dedicano alla pesca solitaria del polpo col sistema della goccia di olio. Si cammina lungo gli scogli e nei luoghi che sanno di tana, si getta in acqua qualche goccia di olio che crea una specchio che lascia vedere il fondo. Se il polpo c’è si infilza con una fiocina a tridente. Ma ci vuole una certa abilità.
Il dopo cena è dedicato alla tv (se si prende) oppure ai giochi di carte. Impazzano scopone, briscola in cinque e cinquecento. Poi si va a letto o a pescare. Nel primo caso comincia la guerra notturna contro zanzare a zappagghiuni. Imperversano vape, zampironi, pozioni tradizionali fatte in casa che riducono il corpo ad una massa olezzante. E se tutto va bene, l’indomani è di nuovo vacanza.
Ma cosa volete che sia un po’ di disagio e di precarietà per un popolo disagiato e precario dalla notte dei tempi? Ma vale il principio «questo è mio» per rendere la cosa più che sopportabile, anzi fortemente desiderata. Al villino, per quanto piccolo e improvvisato, ci si affezione come ad una persona e verso di esso si convoglia attenzione, lavoro e dedizione che non conoscono pause neanche in inverno. Si va a vedere se è tutto a posto, se sono entrati i ladri o il mare, se c’è umidità, se il cancello ha bisogno di una mano di vernice. E poi, vuoi mettere?, per i mariti più «focosi», quelli che hanno qualche «tracchiggio», può diventare pure una «garconierre» a patto che il vicino non abbia avuto la stessa idea e si verifichino incontri imbarazzanti.
E poi: pensate al prio della SignòMaria che a Borgo Nuovo si affaccia al balcone a stendere mutande e canottiere e incrocia lo sguaro torvo della SignòRosetta che il «billino» non ce l’ha. La conversazione è di sublime perfidia.
-SignòRosetta, come sta?
-Ammuttamu, che vuole fare
-Non mi dica niente, mi passa la vita a sistemare, ormai ci vuole poco
-Poco a che cosa?
-Per la villeggiatura, no? Perché, lei non ci va?
-Io...singora mia, ho tanti pensieri. Forse andiamo da mio suocero a Mezzojuso
-No no, ma quale campagna. Io se non mi faccio due mesi di mare all’anno proprio non può essere
-Si ma lei ha dove andare
-Vero è. Per fortuna ci siamo fatti queso billino. Mi deve credere, è una bomboniera.
-Beata lei...
-A proposito,SignòRosetta, visto che lei non si muove, non è che ci darebbe un occhio alla casa? Sa con tutti questi morti di fame che vanno a rubare...  
Debiti/1. La povertà non è vergogna...
La povertà non è vergogna ma manco un prio. Modo tutto palermitano per coniugare dignità e sofferenza. Tuttavia a Palermo l’indice reale di povertà è inafferrabile. L’Istat ci prova ma nella «foresta in nero» gli introiti reali sono imperscrutabili e lo stile di vita non sempre è un indizio conducente. Così ci sono insegnanti poveri e muratori ricchi, bancari in apnea e ambulanti ben ossigenati. La differenza, il più delle volte, sta nei debiti. A Palermo non avere niente, ma neanche debiti, colloca in un’area che è già, a suo modo, privilegiata. Insomma chi non ha debiti può ancora farli e questa capacità ha il suo valore aggiunto.
Naturalmente, i debiti di cui si parla non sono quelli «classici», quelli che appartengono alla normale economia domestica. Il mutuo della casa, le rate della macchina: sotto questo profilo i debiti li ha pure chi non manca di nulla. Diciamo che in quei casi si tratta di un «debito tecnico» anche se per molti si tratta pur sempre di un pesante fardello da portare. Ma c’è perfino chi attribuisce ai debiti una funzione scaramantica: «Fino a quando ho debiti, nessuno mi tira i piedi».
I debiti più «popolari» invece appartengono alla categoria di quelli contratti non già per desiderio di promozione sociale (la casa, la macchina, la cucina «americana», l’ultimo modello di DVD, la tv da 40 pollici) ma quelli che si fanno per necessità, spalle al muro e acqua alla gola.
In questa categoria rientrano i prestiti ottenuti dai parenti, quelli ottenuti dagli usurai (ma spesso è la stessa cosa), quelli, per quanto piccoli, «accesi» presso i fornitori (salumeria, carnezziere, fruttivendolo) e quelli contratti attraverso una delle più antiche forme di indebitamento, il prestito su pegno.
Come si può notare, si tratta di debiti «inconfessabili». In questi casi la povertà continua a non essere un prio ma smette di non essere vergogna.
Quando davanti alla porta di casa arriva il postino con un’ingiunzione di pagamento che riguarda tasse, multe, banche, finanziarie o altro, nei confronti della vittima c’è tanta solidarietà. Al grido di «ognuno abbiamo i nostri», in molti quartieri e rioni di Palermo, si arrivava all’organizzazione di vere sommosse contro l’imperversare degli ufficiali giudiziari o comunque di ogni sorta di addetto al «recupero crediti». Un mestiere questo che il palermitano, in genere, aborrisce. Di quei debiti, dunque, non occorre vergognarsi.
Ma se mandate il figlio dal salumiere a prendere una scatoletta di tonno da «mettere in conto» e il salumiere dice al bambino «dicci alla mamma che c’è un conto quanto di qua fino nni Patri Messina» (unità di misura prediletta dai palermitani), ecco che sulla famiglia scende il velo rosso della vergogna con conseguente «spedizione» del capofamiglia nei locali del rapace «putiaru». La spedizione avviene secondo alcune regole. Primo: in un modo o nell’altro si mettono insieme i soldi del debito. Secondo: si paga pubblicamente e in modo ostentato ribaltando l’accusa di povertà: «Che fa non potevi mangiare senza questi soldi?». Oppure si inalbera l’offesa: «Ti ho mai tappiato niente?», dove «tappiare» sta per prendere e non pagare più, mai più. Terzo: si dichiara l’intenzione di cambiare fornitore e si sottolinea la caduta di stile (infamità) di avere usato il bambino come messaggero della richiesta: «Un’altra volta mi chiami a solo e ti lamenti».
Debiti infimi, pochi maledetti «euri» dietro i quali non c’è mai chissà quale fornitura ma uno stillicidio di formaggini, mortadella, bottiglie di passito, pacchi di pasta, buatte di salsa o di lenticchie, tutt’al più il famigerato «misto», salumi (mortadella, prosciutto cotto, pancetta e formaggi (provola e primosale) pesati e avvolti insieme, ufficialmente antipasto in realtà pasto unico accompagnato da tre o quattro mafalde. E ogni spesa finisce nel quaderno del negoziante. Vi ricordate i quaderni con la copertina nera e il bordo rosso? Mai «libro nero» fu più nero.
Diverso il caso del fruttivendolo o del carnezziere. Frutta e carne sono un lusso, se li vuoi li devi pagare. Insomma, lasciare in sospeso mezzo chilo di capoliato è un conto. Ma se vuoi mangiare trinche pagale. Non parliamo del tabaccaio: sigarette solo «cash». Se no trinciato e cartine: ammogghia e fuma.
Le Finanziarie hanno provocato l’estinzione della cambiale, il pezzo di carta più popolare del palermitano dopo la «tessera». Le «cammiali» erano per la gente qualunque che si dibatteva tra scadenze, protesti e notai. Una volta il titolo di credito si firmava direttamente dal venditore presso il quale, mensilmente, si pagava. Poi vennero i «castelletti» e lo «sconto». Altri «titoli» appartengono invece al mondo del commercio che con i debiti ha ben altra dimestichezza: ecco i maghi dell’assegno «cabriolet», cioè scoperto o quelli, ancora più «magici» dell’assegno postdatato, proibito ma di enorme diffusione.
Ma dietro a cambiali e assegni postdatati si nasconde spesso l’usura che, al pari di un’altra cosa che qui non si può dire, «non conosce parentato». Alla prossima.

ELOGIO DELLA FLATULENZA

Una moltitudine di palermitani si appresta a unirsi alla schiera degli oppositori delle manipolazioni chimiche degli alimenti. Che succede? Improvvisa adesione ambientalista? Repentina presa di coscienza bioetica? Nulla di tutto ciò. La colpa, ma gli interessati non lo sanno, è di un gruppo di scienziati indiani che a Trombay hanno creato uno speciale tipo di fagioli che, sottoposti ad un trattamento radioattivo, non producono gas nell’intestino. Insomma, fagioli «no gas» con buona pace, per chiamare le cose con il loro nome, del pirito.<DC>Il palermitano non ci sta perchè, come si suol dire, col pirito «si chiama di tu» fin dai primi giorni di vita. Lo dimostra non solo l’empirica frequentazione dell’etnia panormita ma anche la copiosa produzione di detti e proverbi nei quali il pirito troneggia, nel senso del trono (regale) e del «trono» inteso come «tuono», rumore.Il palermitano è appena venuto alla luce e tutti aspettano il primo vagito. Ma un padre che si rispetti aspetta il primo pirito. Nel corso dei primi sei mesi di vita la flatulenza segna il grafico della buona salute: rumore, densità e «profumo» indicano la «regolarità» dell’intero processo alimentare. Non a caso ogni manifestazione di «aria» è sempre accompagnata da un’esclamazione di soddisfazione e la modulazione dell’emissione può anche strappare agli astanti moti di vera ammirazione e di incontenibile simpatia specialmente quando proviene da un infante.C’è chi è arrivato a compilare una sorta di onomastica del pirito con largo impiego di concetti onomatopeici (nome derivato dal rumore che si vuole definire). «Roberto» è rumoroso e perentorio, «Silvio» sottile e clandestino, «Filippo» denso e inudibile.Ma il «feto», quello no, non si può nascondere. Se, tuttavia, si è in tanti si sviluppa un «giallo» che può essere risolto solo da un’approfondita conoscenza degli indiziati. E la sentenza è senza appello: «Tanino si piritiò».Parliamoci chiaro: il palermitano vive il pirito con sofferenza solo se è il pirito degli altri. Il proprio, invece, lo vive con voluttà, come «cosa sua». Così com’è internazionalmente riconosciuta la voluttà di chi si infila le dita nel naso, da Stoccolma a Vladivostok.Ogni volta che un palermitano «si produce», analizza con spirito critico, inserisce l’ultimo prodotto in una letale «top ten» dove primeggiano vere armi di distruzione di massa e dove l’Iprite, terribile gas venefico impiegato a Ipres nella Grande Guerra, diventa cinicamente «ipirite».La lingua palermitana assegna al pirito un ruolo non secondario. «Antico come il pirito» è un modo per legare questa manifestazione alla notte dell’uomo. Ma si segnala anche l’uso opposto, tuttaltro che celebrativo: «Quello si sente come un pirito» per definire un «pallone gonfiato».Se poi volete dire a qualcuno che si sta agitando inutilmente, ditegli che si muove «come un pirito nelle budella»: massimo del fastidio col minimo del motivo. In fondo si tratta pur sempre di aria. E non tentate di spiegare a un palermitano che cosa sono le leggi di Gay-Lussac che raccontano come i gas sono materia, mica Etere. Nella antica malavita palermitana c’erano due cugini pregiudicati per reati «di patrimonio». Uno lo chiamavano «pirito bollito» e un altro «pirito munnato», cioè sbucciato. Ora, non potendo il pirito essere nè bollito nè «munnato», se ne ricava un giudizio di inutilità e di inesistenza senza appello.Volete esaltare le origini schiette e ruspanti di qualcuno? Volete indicare quanto sia formativa la scuola del Marciapiede? Ditegli che è diplomato all’«Accademia del Pirito Libero», come consiglia il collega Attilio Megna che, sospetto, all’Accademia ha conseguito un «master».Se invece volete «diminuire» qualcuno, mandatelo a «sucare i piriti ai ’gnuri», che in italiano sarebbe «ad assorbire le flatulenze dei vetturini». Questo lo può capire solo chi ha avuto la ventura di usare una carrozzella come mezzo di trasporto. C’era il cocchiere (’gnuri) a cassetta e dietro l’ampio divano per papà e mamma. I bambini stavano sulla scomoda panchina di fronte al divano e davano le spalle e la testa al fondo schiena del vetturino che, essendo all’aria aperta, non si poneva certo il problema dell’opportunità dell’emissione. Che colpiva il bambino, privo ancora di capacità giuridica. Insomma, quello era il posto dei «senza diritti», di quelli che, come i bambini, non contano granché. Almeno nella scala dei diritti di famiglia. Come si vede, un palermitano che si rispetti, può sempre mettere il pirito al centro della sua conversazione usandolo come grimaldello per ricordi di gioventù, «zingarate», memorie boccaccesche. Vi si può mai rinunciare? Certo che no. Per favore, giù le mani dai fagioli, quelli con i «carboidrati oligosaccaridi», gli unici in grado di produrre il giusto mix di metano e zolfo e di regalarci un momento di mefitico divertimento in una vita troppo seria per potere rinunciare al pirito del quale qui, con le scuse del caso, si conclude il modesto elogio.