VINCENZO FLORIO

Ricco armatore siciliano, pioniere dell’automobilismo sportivo italiano, pilota, organizzatore di gare, presidente per parecchi anni della CSAI. Il suo nome è legato alla Targa Florio, la competizione motoristica che egli ideò e organizzò a partire dal 1906 e che si è disputata fino alla metà degli anni 70 sulle strade delle Madonie. Nasce a Palermo il 16 marzo 1883 da una ricchissima famiglia. Fin da giovane si interessa all’automobile e partecipa a numerose gare, ottenendo ottimi piazzamenti. In questo periodo inizia anche a investire consistenti cifre per sponsorizzare manifestazioni sportive e piloti promettenti. Convinto che le gare su strada siano utili ai fini del progresso tecnico, organizza, a proprie spese, la Targa Florio, la Coppa Florio, il Giro di Sicilia e numerose altre manifestazioni automobilistiche, motociclistiche e motonautiche. Assieme al fratello Ignazio fonda a Palermo una società per la costruzione di automobili, che tuttavia non svolse mai alcuna attività produttiva. Dal 1912 al 1914 alcune vetture costruite a Torino dalle officine Beccaria portano, in seguito a un accordo commerciale, il marchio Florio. Nel 1913 fonda l’Automobile Club di Sicilia, di cui rimane presidente per moltissimi anni. Nel 1959, dopo aver ottenuto l’inserimento della Targa Florio fra le prove valide per il campionato mondiale Marche,Vincenzo Florio muore a Epernay, in Francia, dove si trova in vacanza nella villa della moglie.


4^ TARGA FLORIO
2 maggio 1909
Buona la prestazione del Cav. Vincenzo Florio su FIAT ad un solo minuto dal vincitore, ritardo dovuto ad una sosta non prevista per soddisfare... un'esigenza fisica!

Vincenzo Florio nel 1910.

Nel 1917 in un olio di Grosso. 

7^ TARGA FLORIO - 1^ GIRO DI SICILIA
25/26 maggio 1912
VINCENZO FLORIO insieme a
GUIDO AIROLDI partecipa alla sua corsa su MERCEDES.

1920. A colloquio con Enzo Ferrari.

Vincenzo Florio nel 1922, al lavoro.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

S. Maria di Gesù.

 

 

 

FILIPPO CIANCIAFARA RICORDA FLORIO

(dal Numero Unico della 51^ Edizione Automobile Club Palermo)

« Io sono forse l'amico dal punto di vista sportivo meno adatto a ricordare Vincenzo Florio, questo indimenticabile personaggio del mio tempo. Conobbi Florio quand'ero ancora giovanissimo. Passai con lui tutta l'infanzia, ne combinammo, veramente tante. Molti particolari di questa sentita amicizia non li ricordo più, ma alcuni mi sono rimasti bene in mente. Poi lasciai Palermo e con Palermo lasciai Vincenzo Florio. Mi trasferii a Messina, poi a Roma e per molti anni non vidi più il mio caro amico. Credevo di averlo perduto. Ma ritornato a Palermo sono andato a trovarlo nella sua sontuosa villa dell'Arenella. Da quel momento il nostro legame di­venne più saldo, la nostra amicizia più intima. Non credevo assolutamente di ritrovare un amico che ritenevo perduto. Invece assieme divenimmo sempre più uniti. La sua morte poi mi ha profondamente addolorato.
Chi era Florio mi chiede? Tutti ormai sanno chi era Florio. Quale era il suo spirito, la sua personalità. Tutti conoscono bene le sue iniziative, le sue opere, il valore di quest'uomo. A
me non resta che confermare in pieno quanto è stato detto. Tutto insomma su questo classico e straordinario personaggio del nostro secolo è stato detto, ma forse qualche episodio del quale sono stato anch'io protagonista è inedito, non è mai stato raccontato. Ed eccomi brevemente:
Alla periferia di Messina avevo delle proprietà e da li un anno mi capitò di assistere al passaggio dei concorrenti partecipanti al Giro di Sicilia. Nelle vicinanze della mia tenuta ci fu uno dei concorrenti che per far più presto, per marciare più veloce aveva escogitato di evitare la polverosa strada ed aveva preferito salire per un certo tratto, abbastanza lungo, sulle linee ferrate riservate ai tram.
Questo concorrente fece in modo che le ruote della sua vettura filassero dritte sulle rotaie. Ad un tratto però vidi la vettura saltare in aria e cadere in un fossato. Cosa era successo? La strada sulla quale poggiavano le rotaie per un certo tratto per una cunetta, non esisteva e le rotaie poggiavano su una specie di piccolo ponticello, piccolo quanto la larghezza delle rotaie. Quel concorrente era Vincenzo Florio. Ma per fortuna lui e il suo compagno restarono incolumi e tutto fu risolto con qualche cerotto e con la vettura completamente distrutta. Vincenzo Florio finì lì quel Giro di Sicilia e assieme restammo ad osservare gli altri concorrenti diretti a Palermo verso la conclusione della corsa. Ne pensava tante quel Florio!».

VINCENZO FLORIO.
Il signor Vincenzo Florio passò tutta la vita in Palermo, ma egli non vi ebbe i natali. Vi fu portato in fasce dal villaggio di Bagnata in Calabria ove nacque. I Calabresi si spargono in buon numero nelle varie parti dell'Italia meridionale a fare i droghieri. Il padre del signor Vincenzo Florio, di nome Paolo, colla moglie e il bambino, nato da poco, era venuto, appunto nel 1800, come abbiamo detto, a metter su drogheria in Palermo. Ma non visse che pochi mesi, e presto morì col rammarico dello stato infelice in cui lasciava la povera vedova ed il figliuolino orfano. Aveva in Bagnara un fratello, pratico dei commerci, di nome Ignazio; questi, chiamato, venne, prese le redini della casa, avviò per bene gli affari. Uomo con tanto di cuore, s'era posto fermamente nell'animo di fare verso il nipotino ciò che avrebbe fatto il padre medesimo se fosse vissuto: educarlo degnamente, infondergli l'amore dell'onestà e della giustizia, ed avviarlo nei traffici sì che potesse procacciarsi di che vivere onoratamente, e giovare al suo paese adottivo. Il signor Ignazio Florio si diede all'educazione del piccolo Vincenzo, ed in breve sentì per lui un vivissimo affetto, trovandolo amorevole, garbato, buono, e oltremodo sveglio, perspicace, operoso. Ben presto il fanciullo diventò l'anima della casa, ed in quell'età in cui conviene costringere la mente a pensare e fare qualche cosa, egli sciorinava allo zio certe sue idee, certi suoi disegni, che lo riempivano di meraviglia. Era la Sicilia a quel tempo un paese stranamente appartato dal mondo, e poco meno si poteva dire della sua metropoli. Pochi erano i Palermitani che uscissero dalla città, pochissimi che viaggiassero per l'isola, e chi si fosse spinto fino a Napoli era guardato con più stupore che non oggi chi abbia fatto il giro del mondo. Vincenzo Florio s'avvide alle prime che così non si fa nulla di buono in commercio; che giovava sgranchirsi, andare fuori dell'isola scovando nuovi prodotti da smerciare utilmente, e che solo così si sarebbe potuto allargare quel giro d'affari che la sua casa principiava a fare con frutto tra Palermo e le varie città e terre dell'isola. Espose questi suoi disegni allo zio, chiese insistentemente che gli lasciasse fare un viaggio sul continente e gli fu concesso. Toccava allora i quindici anni. Salpò per Genova sopra un legnetto a vela, poi si recò a Londra.
A quel dì, che gli alcaloidi mancavano, era assai più rilevante che oggi non sia il commercio delle droghe, corteccia peruviana, manna, cassia, ecc. Il giovanetto si persuase in quel suo primo viaggio, che si potevano fare molti più guadagni in Palermo, aggiungendovi il commercio di tutti i coloniali, zucchero, caffè, ecc., e tornato, ribadiva collo zio questo chiodo. Troppo bene aveva fruttato il primo viaggio perché non gli fosse dato prontamente il consenso di ripartire ed eccoti un secondo viaggio; poi un altro; ed in questo suo continuo peregrinare il giovanetto studiava gli uomini e le condizioni politiche e sociali dei tempi, e riflettendo su tutto s'ingegnava di impratichirsi, di appropriarsi quanto di meglio si potesse fare nel giro de' suoi traffici, per comune utilità di Palermo, della Sicilia, e della propria casa. Lo zio s'accorse allora che il nipote, non che abbisognare di guida, si era fatto maestro, e lasciò a lui il maneggio di ogni cosa; poi, quando morì, gli lasciò i suoi averi, che, uniti a quelli del nipote, ammontavano ad un trecentomila lire. Era questi allora in sui vent'anni. Per solito in tali congiunture si trova sempre qualche vecchio amico che non richiesto, viene a darvi i suoi savi consigli. Può darsi che allora taluno abbia detto al signor Vincenzo Florio: — Voi avete venti anni e trecentomila lire. A che pro affaticarvi e mettere a rischio i vostri capitali? Potete vivere ricco e tranquillo, darvi per una dozzina d'anni
bel tempo, poi accasarvi con una bella e giovane donna e camparvela quietamente. State dunque allegro e non vi lasciate travolgere da quella vertigine funesta che si chiama amor del denaro, e che ha rovinato tanta gente. Pensate che ogni lasciata è persa, e che il pentirsi dopo a nulla giova, e chi non fa le pazzie in gioventù, le fa in vecchiaia... Non so se ciò per l'appunto sia stato detto allora al signor Florio, ma la cosa è verosimile. A ogni modo, detto e ripetuto, non avrebbe valso a nulla. Egli era tanto assuefatto al lavoro, che non stava mai un minuto senza far nulla. Considerava attentamente tutto ciò che gli cadeva sott'occhio, e viaggiando s'era fitto in capo questa suprema verità, che non v'ha nazione forte davvero e grande di grandezza durevole che non abbia per la via del lavoro acquistata e mantenuta la sua grandezza e la sua forza: aveva visto da vicino il popolo inglese, e sotto la scorza ruvida e strana di quel popolo, sotto quella prima tinta di pregiudizi, aveva ravvisato tutto ciò che esso ha di buono, di forte, di grande; e paragonando la prosperità delle loro cento città operosissime, colla miseria della sua diletta Palermo, della Sicilia e dell'Italia, il giorno che si trovò solo con buon capitale di denaro e con un miglior capitale di buona volontà, di vigoria, di senno, di ammaestramenti acquistati e di bramosia di acquistarne di nuovi, si propose di rivolgere tutte le sue forze a migliorare le condizioni del paese, sviluppandone il commercio, promovendone l'industria, operando per il benessere materiale delle moltitudini, del quale anche il benessere morale tanto si avvantaggia. Egli sapeva a vent'anni ciò che oggi molti uomini canuti non sanno, vale a dire che un popolo tanto migliora quanto più acquista in prosperità col lavoro, e che una regola d'aritmetica imparata bene giova più d'un volume di massime morali recitate pappagallescamente e mal comprese. Appuntò lo sguardo nell'avvenire, e sentì dentro di sé che, ove la vita glielo avesse permesso, avrebbe impresso e trasfuso nei suoi compaesani un benefico ammaestramento; e si diede tutto alla nobile impresa. L'Italia ha una ricchezza di cui non trae frutto abbastanza, ed è la pesca: il suo estesissimo litorale (ora che le vie di comunicazione all'interno si sono moltiplicate) potrebbe, a un bisogno, alimentare tutta la nazione coi soli prodotti del mare, solo che se ne sapesse trarre convenevolmente partito. Queste vie mancavano quasi in tutto ai tempi che il signor Florio incominciava i suoi studi sui modi di migliorare con nuove imprese le condizioni della Sicilia: ma si avvide che anche allora v'era qualcosa da fare su questo punto, e postovi mano dopo un attento esame dello stato delle cose, i suoi disegni produssero un meraviglioso successo. La pesca del tonno poteva allargarsi di molto, e, bene indirizzata, apportare grandi profitti. Si risolvette pertanto di dare un impulso potente a siffatta pesca, e moltiplicò le tonnare, migliorando gli strumenti di pesca, inventandone taluni, come la così detta Montaleva, per la quale, in cambio di aspettare le centinaia di tonni a branchi, si possono pescare alla spicciolata, anche un tonno per volta. Insegnò a utilizzare anche quelle parti del pesce che prima si gettavano, e trarne olio per farne concime; e dalle parti carnose a cavarne più frutto, introducendo la preparazione dello scabeccio, o tonno in olio, che mandava per tutta l'Italia. Le tonnare di Favignana, di Formica, di Scopello, di Secco, di San Giuliano, di Vergine Maria, dell'Arenella presso Palermo, fruttarono un buon milione a lui e molti milioni alla Sicilia. Egli ancora oggidì tiene in proprio, per diletto, la tonnara dell'Arenella: le altre cedé per attendere a nuove imprese. Fra le ricchezze di che la natura fu larga ai Siciliani, apprezzava debitamente quella degli zolfi; e le seppe infondere tanto moto, che ne divenne in breve padrone. La qual cosa gli venne fatta, sì per lo studio accurato che egli aveva posto al solito in tale industria, e sì pei grossi capitali che ormai poteva impiegarvi. Nel tempo medesimo diede opera alle manifatture, ed aprì anche una casa di banca, sempre con grande utile del paese e suo. Ad un'altra impresa si diè fin d'allora non meno proficua che quella de' zolfi, e che fece poi dei grandi passi, voglio dire la preparazione ed il commercio dei vini di
Marsala, al quale ei seppe imprimere quell'impulso poderoso per cui oggi quel vino è ricercatissimo in ogni parte del mondo, sopratutto nei lunghi viaggi, come quello che in quantità minore ha più forza. Ad agevolarne la vendita aprì depositi dei suoi vini a Castellammare, Vittorio, Alcamo, Campobello, Castelvetrano, e tanto ampliò questo suo commercio, che ormai si ragguaglia ad un cinque milioni di capitale. Tutti questi fatti, in un uomo ardimentoso e solerte come il signor Florio, dovevano dar luogo ad un altro.
La navigazione a vela era a quei tempi poca cosa in Sicilia, nè a lui poteva sfuggire l'opportunità del promuoverla; e pertanto si fece armatore di bastimenti a vela. Fece costruire, promuovendo un'arte nuova in paese, legni pel traffico di Trieste, di Genova, poi d'altre regioni d'Europa, ed anche d'America recando per tutto i generi del suo vario commercio del quale formavano parte notevole le saporitissime arance. Anch'oggi egli manda fuori ogni anno un trenta o quaranta bastimenti in Inghilterra, in Olanda, in America carichi di sole arance, la qual cosa ci spiega l'estensione larghissima che prese in Sicilia la coltivazione di questo albero, che viene anteposta a quella del grano e ad ogni altra, perché più lucrosa di tutte. S'ingegnò altresì di migliorare la condizione delle macine in Sicilia, fece prove di macchine a vento presso l'Arenella, ed è opera sua la Macina di San Marco presso
Palermo. Nel 1841 mise su una fonderia di ferro nella stessa città, chiamata Fonderia Orotea: quell'impresa era buona fin da principio, gli sviluppi posteriori la dovevano
in breve rendere ottima. La navigazione a vapore cominciava a far breccia anche nel regno di Napoli. Un piccolo piroscafo, nel 1845, opera di privati, ma tosto venuto in mano del governo, aveva cominciato a fare qualche tragitto da Napoli a Palermo. Col suo solito accorgimento, il signor Florio afferrò subito l'idea di quanto bene avrebbe fatto in Sicilia la navigazione a vapore in luoghi opportuni. Le strade, pochissime oggi, allora mancavano, sto per dire, del tutto: malagevole cosa il trasporto del denaro ed ogni maniera di commercio entro terra. La navigazione a vapore avrebbe mutato faccia alle cose, ma doveva essere amministrata bene, e resa pronta, comoda, bastevole; ciò che il governo non avrebbe fatto mai. Il signor Florio ci si mise d'impegno e riuscì, come dice il volgo, colla sua costante fortuna: perché fece, al solito, un retto giudizio dell'impresa, studiò le vie più atte a condurla a buon fine, e seppe con avvedutezza e prudenza seguirle. La Fonderia Orotea pareva fatta apposta per il suo bisogno; presentemente, aggregata all'amministrazione dei suoi vapori, essa lavora in grande, fa caldaie, draghe, rimorchiatori, ecc. Il primo suo piroscafo incominciò a solcare il mare nel 1849, e invece del tragitto da Napoli a Palermo, faceva i viaggi di circumnavigazione dell'isola. Quel primo piroscafo ebbe nome l'Indipendente; venne secondo il Corriere Siciliano, poi l'Etna, poi altri che prolungarono il corso sino a Napoli, a Marsiglia ed altrove, tantoché un bel giorno poterono rendere ragguardevoli servigi al governo italiano: oggi, lasciando stare quelli che sono in costruzione, i vapori del signor Florio ammontano a sedici, con una suppellettile migliore che non sia quella di qualsivoglia società italiana: chi ha viaggiato da Napoli a Palermo su qualcuno dei più recenti, per esempio, sull'Elettrico, se lo confronta coi primi, ha potuto apprezzare le cure solerti con cui si cerca di ottenere sempre nuovi miglioramenti: questi piroscafi fanno un servizio spedito, frequente, puntuale, e sono per l'isola di utilità inestimabile. Come d'inestimabile utilità per l'isola e per l'Italia è tutto ciò che fece il signor Florio, e che qui non pienamente, ma solo in parte siamo venuti enumerando. A questo punto la mente ritorna ai primordi di questo uomo benemerito, e con ammirazione considera la mèta a cui giunse. Ha raggruzzolato venti milioni! Così si contentano di esclamare i dappoco, i fannulloni, pur troppo numerosissimi, che fanno tanto di cappello alla carrozza di un
grullo che sarebbe rimasto sempre povero in canna se non fosse nato nei quattrini fino agli occhi. Se in cambio di rivedere la ragione ed i guadagni del signor Florio, tirassimo il conto di ciò che ha fatto guadagnare al paese, finiremmo per abbandonare l'impresa senza venirne a capo, tanti e tanto maggiori furono i lucri che dalla sua operosità derivarono alla collettività. Egli, così acuto e sagace nel fiutare i buoni affari, non si peritò mai di spendere (altri diceva sciupare) denaro, che avrebbe potuto tenersi in tasca, per far lavorare in
casa ciò che avrebbe con minore spesa potuto trarre di fuori. Non si tenne mai dal dare l'esempio, e dal metterci di suo, per introdurre una nuova industria in patria, anche quando non ne sperasse vantaggi immediati. Oggi, almeno quattromila famiglie da lui hanno pane. E famiglie innumerevoli benedicono la sua beneficenza che ama esercitarsi in segreto, ed abborre dagli articoli dei giornali. La singolare modestia non lo salvò dagli onori consueti, decorazioni, medaglie, premi, ecc. È senatore del Regno; stimato, ben voluto, riverito, la bontà dell'animo suo è universalmente celebrata in Palermo, come in ogni paese commerciale è celebrata da tutti l'integrità, l'esattezza, la puntualità, la perizia sua nei commerci. Ricorda con amore le sue origini. Nel principio della sua carriera, quando già aveva ammassato parecchi milioni, una famiglia patrizia (se è vero ciò che si racconta) non avrebbe sdegnato d'umiliare il titolo al sacchetto, come dice il Giusti, e d'incrociarsi col ricco popolano, a patto che smettesse la drogheria: ma egli non volle sentirne discorrere; e l'antica drogheria sta aperta tuttora coi nomi d'Ignazio e Vincenzo Florio. Egli prese moglie più tardi e a suo genio: ha un figlio che chiamò Ignazio per ricordare il buon zio, e questo Ignazio ha egli pure un figliuolo di nome Vincenzo, in memoria del babbo. Vincenzo Florio, aiutato efficacemente dal suo Ignazio, circondato da gente dabbene che lo ama, contento di quanto ha fatto, accudisce tuttavia ai suoi negozi, e coglie volentieri ogni occasione di fare del bene, in questa sua avanzata età, pur sempre operosa. Di certo tutti quelli che leggono questo libro concordano con chi lo scrive, nell'augurare al nobile vegliardo anni lunghi e felici. Gli esempi di siciliani insigni, che nati in povertà, seppero col fermo volere levarsi in alto e giovare, sono numerosi in Palermo, e lungo quanto bello ne sarebbe l'elenco. Da Volere è potere di Michele Lessona ed. Daniel, [1949]