BUGATTI
Dopo un'esperienza decennale come disegnatore di automobili di varie marche, tra le quali De Dietrich, Mathis e DEUTZ, nel 1909 Ettore Bugatti costruì un proprio stabilimento a Molsheim, vicino a Strasburgo, con il proposito di dare avvio alla produzione in piccola serie di una piccola vettura con caratteristiche simili al prototipo Tipo 10 che egli aveva realizzato per proprio conto mentre era ancora alle dipendenze della DEUTZ di Colonia. La produzione inizio quindi con il modello Tipo 13, dotato di un motore da 1327 cm³ con albero a camme in testa. Contemporaneamente, Bugatti disegnò anche la Peugeot Bebè. Nel periodo prebellico la gamma Bugatti era ristretta a modelli con motori a 4 cilindri da 1327 cm³ e da 5027 cm³ (quest'ultimo fu soprannominato Tipo Garros, dal nome del famoso aviatore che ne acquistò il primo esemplare). Nel 1913 fu realizzato un prototipo con motore da 2655 cm³ ad 8 cilindri in linea, ottenuto accoppiando due propulsori da 4 cilindri, ma la produzione della prima Bugatti vera e propria con motore di 8 cilindri comincia nel 1922, con la Tipo 30 da 1991 cm³. In occasione del Gran Premio di Lione del 1924, Ettore presento la Tipo 35, che con il suo 8 cilindri da 1991 cm³, rappresentò la base di partenza per la 35A (1991 cm³), per la 35T (2261 cm³) e per la 35B (sovralimentata) nonché per la 39 (da 1492 cm³) e per la 39A (sovralimentata). Nel settore delle automobili da corsa, occupavano un ruolo di primo piano la 4 cilindri Tipo 40 e la 8 cilindri Tipo 43, mentre nel settore turismo la gamma Bugatti comprendeva la Tipo 44 (con motore da 3000 cm³) e la Tipo 46 (con motore da 5300 cm³). Del modello Royale ne furono costruiti soltanto una mezza dozzina di esemplari, ed il suo gigantesco motore 8 cilindri da 12762 cm³ venne successivamente utilizzato, con ottimi risultati, come propulsore per i locomotori veloci. Bugatti utilizzo per la prima volta la distribuzione con doppio albero a camme in testa nel 1931, sull'8 cilindri da 2261 cm³ del modello da corsa Tipo 51. La Tipo 59 rappresentò invece l'ultima grande automobile da corsa di questa marca: utilizzò motori da 2800 cm³, 2900 cm³ a 3300 cm'. La Tipo 55, un modello sport con motore da 2300 cm³ e doppio albero a camme in testa, pose le basi per la Tipo 57, che rimase in produzione dal 1934 sino allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Quest'ultimo modello sport/corsa con motore da 3257 cm³ era disponibile anche in versione sovralimentata (sotto la sigla 57S e 57SC) e può essere considerato l'ultimo della produzione Bugatti: dopo la morte di Bugatti, avvenuta ne1 1947, la sua fabbrica produsse solo pochi esemplari della Tipo 101 (sempre derivato dalla 57), dopodiché fu rilevata dalla Hispano - Suiza che convertì gli stabilimenti di Molsheim alla fabbricazione di componenti per aerei.  


14^ TARGA FLORIO
15 aprile 1923
La BUGATTI TYPE 22 di LENTI
 

1925. Meo COSTANTINI vince la 16^ Targa Florio iniziando la serie di vittorie della Bugatti che continuerà fino al 1929.
 

 

19^ TARGA FLORIO - 11^ COPPA FLORIO
6 maggio 1928
La BUGATTI TYPE 35 B di ALBERT DIVO domina la corsa.
 

21^ TARGA FLORIO
4 maggio 1930
La BUGATTI TYPE 35 B del CONTE CABERTO CONELLI ottiene un ottimo 3^ posto assoluto.
 

22^ TARGA FLORIO
 10 maggio 1931
La BUGATTI TYPE 51 di ACHILLE VARZI autore del GIRO più VELOCE.
 

23^ TARGA FLORIO
8 maggio 1932
 

LA BUGATTI ALLA TARGA FLORIO

Dire Bugatti e dire Targa Florio è nominare i termini di un’accoppiata che negli anni più fulgenti dell’automobilismo eroico fu vincente, sotto ogni aspetto, perché entrambi espressione di bellezza e di eccellenza. La Bugatti, marca per teste coronate, nobiluomini e persone capaci di capire la nobiltà dell’architettura di un motore o del disegno di una ruota, sapeva come nessun’altra al mondo scendere nel fango di una delle corse più impegnative e massacranti del mondo, e uscirne vittoriosa. Fu sul durissimo circuito siciliano che la Bugatti riportò le sue migliori affermazioni. Forse perché, come affermò uno dei più illustri storici della marca, W.F.Bradley, generalmente le vetture da corsa tendevano ad essere progettate per trarre il massimo vantaggio dai regolamenti in vigore o per ottenere il miglior risultato date certe condizioni di gara. Ma la struttura stessa della gara inventata da Vincenzo Florio escludeva qualsiasi tipo di tattica. Semplicemente, le condizioni delle strade erano così spaventose che per vincere occorreva avere la macchina migliore, la macchina in grado di affermarsi su qualsiasi tipo di fondo, per il più alto numero di ore consecutive, alla massima velocità possibile. Ciò che pensava Bugatti di questa gara emerge con grande chiarezza da una lettera che inviò a Vincenzo Florio nel 1928, dopo la quarta vittoria consecutiva. “La vostra gara – scriveva – è la più antica del mondo, ma la sua importanza risiede nel fatto che la costituzione geografica della Sicilia permette una gara di lunga durata che si svolge nella più grande varietà di difficoltà stradali. Qualsiasi costruttore che partecipi regolarmente alla Sua gara acquisisce una massa di informazioni che non potrebbe ottenere in nessun altro modo, tantomeno su un circuito o in un laboratorio. Tutto ciò che contribuisce alla preparazione delle macchine per la Targa Florio contribuisce direttamente al miglioramento generale del veicolo stradale.
Per avere una qualsivoglia speranza di successo, è assolutamente indispensabile che la vettura possegga tutte le qualità richieste dal normale cliente. Innanzitutto, dal punto di vista della sicurezza nel senso più ampio del termine. Questo significa che la macchina non deve avere cedimenti, né per colpa di materiali scadenti, né per una progettazione
affrettata, né per una realizzazione approssimativa. Ma sicurezza anche nel senso di facilità di guida, maneggevolezza e tenuta di strada; una macchina realmente buona deve dare l’impressione di essere incollata alla strada. La Targa Florio ha contribuito moltissimo a capire come raggiungere queste qualità. Quindi direi che è stata fondamentale anche per
sviluppare un’accelerazione rapida, qualità assolutamente essenziale per l’utente ordinario, soprattutto se si guida in città dove ormai la circolazione è un susseguirsi di fermate e di partenze. Poi per studiare a fondo un sistema di frenatura costantemente affidabile. La Sua gara ha fatto più di qualsiasi altra per sviluppare queste qualità necessarie alla sicurezza
del guidatore e dei suoi passeggeri. Se la Targa Florio dovesse non svolgersi più, io farei in modo di venire in Sicilia almeno una volta all’anno per collaudare le mie macchine nuove e fare adeguati confronti con la produzione degli anni precedenti”. Difficilmente si sarebbe potuto dire meglio, e con più chiarezza. D’altra parte la Targa Florio non era soltanto una gara difficile e durissima, era unica. Unica per la sua selvaggia bellezza, unica perché ritrovo della migliore aristocrazia europea, se non mondiale, unica perché circondata da un’aura di romanticismo che non si respirava da nessun’altra parte. Probabilmente nessuna gara ebbe così pochi spettatori, e più grande fama. Per questo motivo fu la gara su cui fu più necessario investire intere fortune: il ritorno economico degli spettatori, che per la posizione geografica dell’isola non potevano essere tanti, non era certo alto. Ma al contempo fu una gara nota in tutto il mondo, tanto che più volte Vincenzo Florio riceveva lettere indirizzate al “signor Targa”, senza null’altro (e il bello è che gli venivano recapitate). Tutti i
piloti della vecchia guardia presero parte, in un’edizione o nell’altra, alla gara: che si chiamassero Lancia o Nazzaro, Bablot o Wagner, HEMERY o HANRIOT, Boillot o GOUX, Nuvolari o Borzacchini, Brilli Peri o Ascari, Chiron o Divo, Costantini, Lautenschlager, e potremmo continuare con Bordino, Minoia, Segrave, Chassagne, per limitarci al periodo fino alla seconda guerra mondiale. Perché, si diceva, un pilota che non avesse mai partecipato alla Targa Florio non aveva dimostrato niente del suo valore.
La prima volta che la Bugatti partecipò alla Targa Florio fu nel 1925, con una squadra formata da Meo Costantini e dai fratelli de VIZCAYA. Costantini gareggiò su una Tipo 35 8 cilindri e perciò, come abbiamo visto nell’articolo pubblicato su questa stessa rivista di giugno, si iscrisse alla categoria da 1501 a 2000 cc. Nel 1925 i suoi avversari erano Boillot su Peugeot (che si aggiudicò la Coppa, in palio su tre giri del circuito ossia 324 km), Wagner su Peugeot, GINALDI su Alfa Romeo, PLATE su Chiribiri, Kuchel su Tatra. Fu già questa una vittoria straordinaria, perché compì i cinque giri del circuito, pari a 540 km, in 7 ore e 32’, con una velocità media oraria di 71,6 km/h, battendo di gran lunga il precedente record di Werner su Mercedes (65,1 velocità media oraria). Ma ancora più clamorosa fu la sua vittoria dell’anno dopo, quando rimase al comando dall’inizio alla fine, sfatando così la leggenda per cui il leader iniziale non era mai il vincitore finale. Stavolta tra i suoi avversari vi era la Delage, con Masetti, Thomas, Benoist e Divo, la Diatto con De Sterlich, la Maserati con Alfieri Maserati, la Itala con Materassi, la Salmson con Borzacchini: ma non ci fu storia, e la sua superiorità non fu mai seriamente minacciata. Arrivò a tagliare per primo il traguardo, dopo 7 ore e 20’, migliorando ulteriormente la velocità media, 73,511 km/h, con dieci minuti di vantaggio sul suo compagno di squadra Minoia.
Le macchine partivano alla vecchia maniera, ad intervalli di un minuto, visto che una partenza di massa sarebbe stata impossibile su strade come quelle. Per ciascun pilota, il segnale di partenza era l’inizio di un’avventura solitaria, in cui avrebbe dovuto affrontare, nella più completa solitudine, salite ripidissime, tornanti, discese con strapiombi, rettilinei,
tratti veloci, per 540 interminabili chilometri (corrispondenti a cinque giri del percorso). Poteva capitare di partire con il sole a picco e trovare la neve nei tratti montuosi, magari a Polizzi (che Bradley ebbe il coraggio di definire “one of the last strongholds of the powerful Maffia”). Si calcolò che il numero di curve assommava a milleduecento: sufficienti per sfiancare anche il più saldo e il più determinato dei piloti. Nessuno riuscì a calcolare quanti cambi era necessario effettuare, quante volte toccare i freni. Alcuni piloti, per impratichirsi, arrivavano a compiere alcuni giri del circuito a piedi, nel tentativo, non si sa quanto fruttuoso, di imprimersi nella memoria il suo andamento. Ma i più valenti, quelli con maggiore esperienza, sostenevano che ogni sforzo di memorizzare il percorso era assolutamente inutile. E a questo si aggiungeva la lugubre abitudine di Florio di disseminare lapidi ovunque si fosse verificato un incidente: una vista certo non incoraggiante per i partecipanti, costretti a superarne ben sessanta. E vi era ancora qualcosa che rendeva così difficile la gara: la mancanza di spettatori, che si ammassavano nelle tribune sontuosamente realizzate ma che non si potevano spingere oltre. Ciò significava guidare nel silenzio, senza nessuno che incitasse o applaudisse; e che, in mancanza di un concorrente immediatamente davanti o dietro, il pilota era nell’impossibilità di conoscere il suo posto in classifica (vi erano soltanto due punti di segnalazione in tutto il circuito). Se si aveva un incidente, bisognava soltanto sperare che arrivasse presto qualcuno, altrimenti anche la fermata più banale poteva trasformarsi in tragedia. Ad un Nuvolari forse fin troppo focoso, il più sperimentato Lancia disse: “condizione essenziale per vincere una gara è sapere come mantenersi in strada”. Costantini riuscì a vincere due edizioni grazie alla sua meravigliosa precisione, qualità che possedeva al massimo grado e che gli fu più che utile nell’affrontare le migliaia di curve. Sapeva per istinto e con assoluta esattezza a che velocità e in che maniera occorreva affrontare ognuna di esse, e si poteva stare sicuri che l’avrebbe affrontata proprio a quella velocità e in quella maniera. E nella corsa del 1926 la vittoria fu davvero completa, perché al secondo posto arrivò Minoia, al terzo GOUX, entrambi su Bugatti. Era la prima volta che una casa riusciva a piazzare tre vetture ai primi tre posti. La terza vittoria consecutiva per la Bugatti fu invece opera di Emilio Materassi, che precedette di poco il suo compagno di squadra Conelli, al secondo posto assoluto e primo nella categoria delle 1500. La stampa italiana dell’epoca rilevò subito che il tempo conseguito dal vincitore era di quindici minuti superiore al tempo di Costantini dell’anno prima, e ne dedusse sicuro auspicio per una futura vittoria dell’Alfa Romeo. Il fatto che il pilota a cui erano state affidate le speranze della casa milanese, Nando Minoia, avesse dovuto ritirarsi per la rottura del differenziale, venne considerato come un episodio sfortunato, che non si sarebbe più ripetuto. Perché Minoia era, secondo “Auto Italiana”, “il pilota più a posto e più sicuro della vittoria assoluta per l’eccezionale sua valentia di guida e per la conoscenza perfetta del difficilissimo percorso nel quale le curve seguono con vertiginosa continuità”. Peraltro anche Materassi ebbe un brutto incidente, nel quale finì fuori strada, ma il suo più diretto avversario, Alfieri Maserati, fu attardato ancora di più dal cambio di due gomme nel giro di pochi chilometri, e per di più nel tratto finale fu sorpreso da una furiosa grandinata.
Nell’edizione del 1928 la gara fu assai più combattuta ed incerta. Se la vittoria arrise un’ennesima volta alla squadra francese, per la stampa italiana, ovviamente, la parte più bella e più interessante l’avevano condotta Campari e l’Alfa Romeo, mentre “dallo squadrone formidabile e preparatissimo delle Bugatti non si è avuta quella dimostrazione di superiorità assoluta ch’era invece nelle aspettative di tutti”. Sarà anche così, ma sta di fatto che la Bugatti emerse da un nutrito gruppo di concorrenti: quattro Fiat, due Salmson, due Camen, una Sangiorgio nella classe 1100, nove Bugatti, due Alfa Romeo, due Maserati nella classe 1500, tre Maserati e cinque Bugatti nella classe 2000; quattro Bugatti nella classe da 2000 a 3000; una Steyr e un’Alfa Romeo nella classe da 3000 a 5000 cmc. 18 Bugatti su trentasei concorrenti…testimoniavano l’assoluto interesse della casa francese a competere sul circuito siciliano, e la serietà della preparazione di uomini e macchine. Il 1928 fu anche l’anno della rivelazione del “fenomeno JUNEK”, della partecipazione cioè della bionda pilota cecoslovacca che per cento chilometri parve addirittura potersi aggiudicare la gara. Era la prima volta che una donna colpiva così il pubblico per la sua prestazione: condurre precedendo Campari, Divo, Conelli, Materassi, Chiron, Fagioli, Borzacchini, Minoia (per non parlare di Nuvolari, che aveva dovuto ritirarsi per rottura di un pistone). Ossia, i piloti più veloci del mondo. D’altra parte non era un caso che la Junek riuscisse a dimostrare le sue qualità proprio su una Bugatti: era più snella, più versatile, più aderente, oltre che più affidabile, delle sue avversarie. Fu bello che un “asso in gonnella”, come naturalmente fu subito definita, riuscisse a strabiliare tutti; ma durò poco. Già al terzo giro i piloti maschi riuscirono a scalzarla dalla prima posizione, finché si arrivò all’ultimo giro, nel quale si impose con una vertiginosa volata finale il pilota francese Albert Divo. Doppia vittoria francese, pilota e macchina, cosa che la stampa italiana digerì davvero male, tanto da definirla “vittoria rubata”: “se Campari non avesse forato durante il quarto giro molto probabilmente avrebbe potuto vincere in virtù del maggiore vantaggio col quale avrebbe potuto iniziare gli ultimi 108 chilometri. E forse Divo, che al quinto giro è arrivato a sfiorare il tempo migliore della giornata segnato da Chiron al primo giro non sarebbe riuscito a rimontare del tutto il proprio handicap”. Poi però fu costretta ad ammettere: “Ma è un fatto che impegnato a fondo dall’ordine di Costantini Divo ha spinto all’estremo ed è riuscito a fornire una prova degna del maggiore rispetto ove si prenda a considerare lo stato di stanchezza del pilota e lo sforzo già sopportato dalla vettura che aveva nel motore, nei freni e nello chassis il tormento di 432 chilometri tipo circuito delle Madonie. Si dice anche che a Campari all’ultimo giro sia stato detto di non spingere a fondo per timore di possibili incidenti … Per noi è puerile tuttavia crederci” (Auto Italiana, 15 maggio 1928). Effettivamente non avrebbe avuto alcun senso scegliere una tattica “prudenziale” proprio sul filo dell’arrivo, compromettendo volontariamente l’eventuale vittoria.  Fu ancora più duro perciò assistere all’ennesima vittoria Bugatti, la quinta consecutiva, nel 1929. Ancora una volta la lotta si scatenò tra la marca francese, l’Alfa Romeo e la Maserati. La prima utilizzava l’usuale motore a 8 cilindri in linea 60x88 mm, sviluppante 55 cavalli a 2000 giri, fino ad un massimo di 135 cavalli a 5600 giri al minuto. L’Alfa Romeo aveva invece il 6 cilindri di 1750 cc due alberi e compressore, 65 x 88 mm, sviluppante al massimo di 4500 giri 120 cavalli circa. La differenza di potenza non fu ininfluente, in un percorso fatto di strappi continui, riprese rabbiose, curve continue e frequenti dislivelli. Anche dal punto di vista della costruzione la Bugatti colpiva per la sua assoluta stabilità, mentre l’Alfa Romeo sembrava disporre di un telaio più leggero, soprattutto posteriormente. Il risultato di questa superiorità fu il primo e il secondo posto per i due piloti Bugatti Albert Divo e Nando Minoia, e un terzo e quarto posto per l’Alfa Romeo, con Brilli Peri e Campari. Stavolta la stampa italiana si era attaccata alla speranza che a vincere sulla Bugatti fosse per lo meno un pilota italiano, ossia Minoia, ma tale speranza svanì inesorabilmente durante il quarto giro. Dire che Minoia aveva compiuto il primo giro segnando il giro più veloce, ripetuto il secondo con quasi lo stesso tempo, terminato il terzo ancora in testa. A metà del quarto giro Divo e Minoia segnarono lo stesso tempo, poi il francese passò decisamente in testa finendo vittorioso con quasi due minuti di vantaggio sul suo compagno. Auto Italiana non si trattenne dallo scrivere che “forse più di tutto ha influito sulla gara di Minoia qualche ordine preliminare della Casa la quale, per avere ingaggiato tutto l’anno Divo come capo équipe deve avere degli impegni con lui. Noi non abbiamo elementi sufficienti per giudicare quale sia la versione più rispondente alla verità ma non possiamo tacere di essere rimasti male quando abbiamo visto al terzo e al quarto passaggio di Minoia davanti ai box e quando Divo era già passato al comando, che gli veniva segnalato di rallentare mentre sarebbe stato conveniente, per premiare almeno un corridore italiano, fargli segno di accelerare”. Ma se Divo era già passato al comando…la classifica era ormai fatta. Nel 1930 l’incantesimo si ruppe, e finalmente vinse un’Alfa Romeo. Ma quei cinque anni di superiorità assoluta entrarono nella leggenda, della gara e della marca. (Donatella Biffignandi per BUGATTIANA 20 luglio 2004)